Da quando ho cominciato a considerare frutta e verdura come principale fonte di sostentamento durante la giornata, mi ritrovo spesso nella singolare circostanza di sentirmi occhi puntati addosso mentre mi dedico alle mie 3 pesche, i miei 10 fichi o il mio mezzo melone.
“Un melone a pranzo? Ma sei matta? guarda che poi stai male?”
É diffusa una strana forma di diffidenza e scetticismo nei confronti del cibo più semplice che esista, quello non elaborato, non pastorizzato, non confezionato, non precotto.
Sarò onesta, non mi chiamo fuori da questo coro, ci ho cantato a voce piena per molto tempo prima di iniziare a pormi alcune domande. Al riguardo mi torna in mente un fatto cui assistevo spesso da ragazzina, quando capitava di trascorrere alcuni pomeriggi a casa di una cara amica il cui papà, dopo una calda giornata passata a lavorare nei campi, si toglieva le scarpe, entrava in cucina e sbranava due limoni interi. Li prendeva così, nudi e crudi dal cesto della frutta, proprio come si fa con una mela, e ci affondava i denti trafiggendo in un sol boccone buccia spessa, bianco, polpa e semi.
Un’immagine che in tempo zero mi produceva una salivazione altissima.
Dei limoni non restava nulla, solo il profumo frizzante che si disperdeva insieme al suo sguardo azzurro e appagato nell’aria.
Nessuna sorsata d’acqua, nessuna barretta energetica, nessun gelatino rinfrescante, eppure in quella casa c’era di tutto e di più.
La consideravo un’autentica stravaganza mentre mi dilettavo a staccare anche l’ultimo rimasuglio di cioccolata dallo stecco del Magnum, merendino che il più delle volte si rivelava insufficiente a saziarmi oltre l’oretta.
Cremoso, allappante, dolce, croccante… un alfabeto di aggettivi markettari utili a soddisfare solo il mio piacere palatale e nulla più. E infatti, due compiti più tardi, toccava aprire il tubo di Pringles e, prima di cena, un pacchetto di salatissimi Doriano. Perché i pomeriggi cominciati così, non potevano che finire che così, a strafogo.
All’epoca la mia competenza si riduceva alla scelta del gelato in base a quanto rosa e oro fossero presenti sulla confezione, eppure, se solo fossi stata un po’ più attenta e curiosa, avrei dovuto intuirlo: perché quella roba, così sbandieratamente ricca e deliziosamente confezionata, non mi saziava?
Forse, quell’uomo che menava le mani nella terra da mattina a sera, pur non dicendo nulla, raccontava nel modo più semplice il livello di simbiosi che può instaurarsi fra uomo e natura.
In fondo, perfino una Lucia in tenera età venne colta più e più volte dal desiderio irrefrenabile di addentare un pomodoro caldo dalla pianta dell’orto di papà, dopo un pomeriggio passato a raccogliere peperoni, zucchine e fagiolini. In quel contesto al gelatino non ci pensava proprio. Perché, quindi, una volta a casa, qualcos’altro scattava nella mente?
C’è stato un momento preciso in cui ho intuito nel profondo che la soddisfazione chimica procurata dalla frutta non ha nulla a che spartire con quella indotta da altri cibi. E’ accaduto qualche mese fa, quando, seduta a tavola alle 14 – l’ora del mio primo pasto quotidiano – mi sono chiesta: perché riesco a mangiare non più di 3 arance o 2 mele alla volta, ma se mi faccio una pasta alla carbonara mi avanza un buchetto per il dolce, il caffè, il quadretto di cioccolata e qualche altra gioia fugace?
Ho cercato la risposta mossa da ingenua curiosità interpellando chi questi interrogativi sapevo averli già masticati, digeriti e dimenticati.
“Perché non riesco a mangiare più di 3 arance alla volta, ma sono disponibile a ingurgitare antipasto, primo, secondo e dolce, volendo?”
“Perché frutta e verdura nutrono le cellule, Lucia, mentre il resto serve ad appagare la testa e il palato. E quando le cellule sono nutrite e rigenerate con abbondante acqua biologica, sostanze zuccherine naturali ed elementi alcalinizzanti oltre che minerali, vitamine e ormoni… il messaggio che il corpo ti lancia è che va bene così, è sazio, è nutrito.”
Insomma, tornando a bomba al punto di partenza: non è dunque paradossale guardare con sospetto il cibo più semplice e innocente del pianeta, l’unico cibo che si digerisce con un costo digestivo pari a zero?
E qui arrivo ai fichi, quella categoria di frutta per la quale inviperiti fiumi di inchiostro sono stati spesi negli ultimi anni da tribù di esperti della nutrizione iperproteica: “Andateci piano con la frutta e fate attenzione ai fichi, ai cachi, alle banane, ai datteri, sono pieni di zucchero! “Ohibò che lavaggio del cervello.
Quel che fu il mio nutrizionista per molti anni (sì, per gli affezionati lettori proprio quello che mi chiamava veterana), prima che mi decidessi a dire addio per sempre a diete zeppe di barrette sostitutive, era solito fornirmi un piano alimentare che escludeva tutta – dico tutta – la frutta, e molti tipi di verdura, salvo poi prescrivermi la parallela assunzione di 3/4 integratori sintetici che regolarmente mi davano un fortissimo senso di nausea. La mattina mi alzavo e mi nutrivo con caffè, bibita proteica dolcificata con zuccheri sintetici ipocalorici ed integratori.
Desideriamo ricordarla così: magra ma con i reni fuori uso.
Qualcuno accanto a me si dimostrava spesso scettico: “Lucia, ma che senso ha?”
“L’ha detto il medico, rispondevo io, e poi è per poco dai…” e sotto con bresaola e ricotta come non ci fosse un domani.
D’altra parte quando in testa hai solo l’obiettivo, spesso non ti interroghi sulla strada, marci convinto sapendo che lì vuoi arrivare.
L’aggravante è che tra le varie amenità del protocollo c’era il bandimento totale della categoria “frutta dolce” che mi ha indotta nel tempo a pensare che farmi un paio di datteri fosse un gesto più colpevole che dire una bugia o che le banane grandi mi avrebbero scompensato la curva glicemica.
Per la stessa ragione per anni ho rifiutato cesti di cachi appena raccolti che mi offriva mio padre: “Papà, sei matto? Sono ipercalorici!” e poi giù a colazione con yogurt, pane e marmellata e cereali. Come dimenticare, però, che spesso il miglior modo che trovavo per farli fuori era ficcandoli in un dolce? Che geniale controsenso.
Comportamenti illogici ripetuti non una volta, ma più volte e con devozione, fino al momento in cui mi è balenato in testa il sospetto che forse la campana non batteva affatto il tempo giusto come mi veniva raccontato o, per dirla in modo più tecnico, che forse quel protocollo faceva acqua da più parti.
Ora, dopo mesi di osservazione di me stessa, delle reazioni del corpo rispetto ai cibi e di approfondimento di tematiche collegate al benessere e alla digestione, sono sempre più convinta che chi propone stili di vita che allontanano da un’alimentazione il più possibile semplice e naturale, forse non vuole il tuo bene ma la tua pecunia.
La salute sta da un’altra parte e ti vuole vedere felice e appagata, anche a tavola.
Perciò, ora che è settembre, fichi e uva come se piovesse. Ma sì, per questa volta pure su una torta.
RICETTA CROSTATA ALLA MANDORLA CON PANNA COTTA AL LIMONE E FICHI
INGREDIENTI
Per la base
120 g burro
90 g zucchero
50 g uovo
90 g farina di mandorle o nocciole
210 g farina tipo 1 | W 220 Grandi Molini Italiani
2 g sale
70 g cioccolato bianco
Per la panna cotta
250 ml panna fresca
50 ml di latte intero
50 gr di zucchero semolato
1 cucchiaini di estratto di vaniglia
scorza di 1 limone non trattato
4 g gelatina in fogli
Per farcire
fichi freschi
uva fragola
PROCEDIMENTO
Prepara la base
Per preparare la crostata alla mandorla con panna cotta al limone e fichi comincia versando nella ciotola della planetaria il burro morbido a temperatura ambiente, lo zucchero e il sale.
Lavora il composto con la frusta piatta finché non risulterà cremoso.
Aggiungi l’uovo e lavora a bassa velocità finchè non sarà assorbito nel composto.
Unisci la farina setacciata e la farina di frutta secca. Mescola fino ad ottenere un composto omogeneo.
Appiattisci l’impasto in forma di disco sul piano di lavoro, avvolgilo con pellicola e lascialo riposare in frigorifero per circa 2 ore.
Una volta raffreddato stendilo con il matterello e adagialo in una teglia diametro 24/26 cm circa foderata di carta forno.
Rimuovi gli eccessi di pasta considerando che i bordi della frolla risultino alti circa 3 cm.
Stendi un foglio di carta forno all’interno della frolla, versa del riso o dei fagioli e procedi con una cottura in bianco: circa 20 minuti a 170°C, modalità statica.
Togli la teglia dal forno, rimuovi con delicatezza il riso e la carta forno e inforna nuovamente per altri 10/15 minuti o fino a doratura.
Una volta fredda spennella l’interno con un velo di cioccolato bianco fuso. Lascia indurire.
Prepara la panna cotta al limone
Metti la gelatina a bagno in acqua fredda.
Sfrega la scorza del limone con lo zucchero in una pentola in cui avrai versato la panna e il latte (questo favorirà lo sprigionarsi degli olii essenziali).
Fai scaldare il tutto mescolando con una frusta fino a quando lo zucchero non si sarà sciolto.
Non portare a bollore. Lascia che la miscela perda parte del calore, filtra il tutto e aggiungi la gelatina ammollata e ben strizzata.
Mescola bene con una frusta e attendi che perda il calore.
Componi la torta
Per comporre la crostata alla mandorla con panna cotta al limone e fichi, versa la panna cotta, ormai a temperatura ambiente, nel guscio di frolla e riponi in frigorifero a rassodare.
Una volta che si sarà rappresa guarnisci con fichi tagliati a fettine, chicchi d’uva fragola e mandorle tostate a filetti.
Puoi lucidare la superficie con un goccio di miele allungato con un filo di olio d’oliva.
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