Sono distesa sul divano con la boule dell’acqua calda sulla pancia, uno dei più significativi momenti di sballo degli ultimi tempi.
Questo dicembre è arrivato con la velocità di quella corda che, da piccolina, le amiche sollevavano sopra la mia testa: la stessa che, scendendo, rischiava di atterrarmi se non mi fossi fatta trovare con le caviglie sollevate.
Non dev’essere un caso se mi ritrovo ancora a parlare di quella corda che, a gennaio del 2020, mi ero ripromessa di saltare alle 5 di ogni mattina. Confesso pubblicamente d’aver smesso dopo circa un mese e mezzo, incapace di tenere, anche di prima mattina, quel ritmo che ha scandito questi 360-quasi-5 giorni. La verità è che ho saltellato sempre, eccezione fatta per Luglio, meravigliosa parentesi in cui mi sono ritirata in semi-solitudine a scrivere tra i monti in compagnia quasi esclusiva dei miei suoceri, cosa che a qualcuno potrebbe sembrare una maledizione, soprattutto in un anno del genere, mentre nei miei ricordi ha il profumo della libertà.
Questo 2020 mi ha fatta sentire vecchia, più saggia, meno timorosa, più malinconica, più vulnerabile. Ciò nonostante sono riuscita a mescolare questo mix di sensazioni potenti per creare qualcosa che oggi tengo tra le mani e che mi sembra genuinamente buono.
Il libro che ho appena pubblicato è la bella e indifesa creatura per la quale ho prima estratto e poi condensato tutta me stessa e che ora guardo con un po’ di tenerezza e preoccupazione allo stesso tempo. Nel momento in cui vorrei chiudere le serrande e dedicarmi all’esercizio personale della sana e svagante follia, devo invece rimboccarmi le maniche e adottare quel piglio da pianificatrice di attività promozionali che mi risulta, ora come ora, pesantissimo.
Dal 9 dicembre scavo nel fondo del barile delle energie in cerca di una devozione alla causa che, tuttavia, non riesco a trovare.
Auspicherei solo che questa creatura camminasse con le sue gambe e non vorrei certo dover pensare a lui ogni santo giorno.
Mi basterebbe poter godere delle occasionali parole di stima che talvolta fanno squillare la mia casella di posta: pensieri e riflessioni di chi questo libro l’ha già finito e mi chiede se sto lavorando ad un seguito. Con il cuore gonfio di orgoglio e la testa che fa “ah-ah-ah-no-no-no-no” salvo il messaggio testuale nell’album che ho intitolato “Ricordi“.
Insomma, sogno banalmente di godermi una sorta di meritata pensione, ma chi ne sa più di me dice che non posso, che la vera fatica inizia ora, quando la pila di libri è pronta per essere distribuita: devi promuoverti, Lucia, devi venderti, devi farti conoscere il più possibile.
Io rispondo “dai, lasciami stare” e come una lumaca infastidita ritiro le antenne e cerco di sparire nella mia casetta ormai troppo piccola per contenere tutti quei frammenti di mondo che sono rimasti attaccati alla mia cute.
Cerco quindi di ritagliarmi momenti per godere di una sana e spiccia follia, come respirare gonfiando la pancia immersa nella vasca da bagno bollente o quella che posso praticare anche stando sul divano con i calzettoni di lana, l’epicondilite al braccio destro come inseparabile amica ed una tuta che non so distinguere più dal pigiama. Sono queste le vere linee forza del mio Dicembre.
Un altro esercizio di follia è ricordare “una settimana tipo” di un dicembre qualsiasi che non sia quello di quest’anno.
Uno a caso? quello del 2017, quando con un vaporoso capello castano chiaro, le gambe un pelino più snelle avvolte in alti stivali scamosciati e il pezzo forte del mio armadio (un cappotto rosso di cui vado fierissima) ho spinto il maniglione dorato che conduceva nel regno stellato di Monsieur Bocuse, in quel di Collonges-au-Mont-d’Or.
Pur rallegrandomi tuttora della piacevolezza del momento, non posso tuttavia dimenticare che l’euforia venne smorzata da un tratto di follia distruttiva che mi attraversò non appena la porta si richiuse alle mie spalle, ossia quando mi resi conto di aver dimenticato la Canon sulla scrivania di casa: quella casa che avevo lasciato 12 ore prima e che ora si trovava a 700 km di distanza.
Come conseguenza di quella sbadataggine, di quel pranzo conservo delle classiche foto da turista col menù in mano e il sorriso a 32 denti (a Gabriele di più non posso chiedere di fare), più un paio di selfie che mi sono scattata intorno ad un tavolo imbandito in perfetto stile di corte. Ah, quale follia nella follia!
Non so se mi rammarica di più non conservare nell’hard disk alcune macro dell’indescrivibile carrello dei dessert, che venne accostato al nostro tavolo al suono delle parole “Prego, signori, scegliete quello che volete”, oppure una foto di gruppo delle mille-mila pentole in rame appese alle mura splendenti della cucina, o forse ancora di un dettaglio della perfetta calotta in pasta sfoglia sotto cui fremeva la celebre zuppa al tartufo nero che lo chef creò nel 1975 per il presidente Valéry Giscard D’Estaing.
Da quel 27 dicembre 2017 ogni Natale è divenuta consuetudine inserire nel menù della nostra casalinga vigilia almeno uno dei suoi grandi piatti: il branzino in crosta con salsa Choron, la tarte tatin o ancora i filetti di triglia in scaglie di patate.
Quest’anno, però, siamo riusciti a godere solo degli effetti di questa pia illusione: subito dopo aver destinato alle sacre prove generali di un signor pasticcio d’anatra un’intera domenica di novembre, io a Gabriele abbiamo scoperto che la sera della vigilia di Natale l’avremmo passata solo in due.
Così “La Prima” di questo gran pezzo di storia della cucina francese l’ho mandata in scena all’aria aperta a casa dei miei genitori un mercoledì qualunque e non troppo freddo di dicembre.
Solo noi tre e pure poco disinvolti, nonché a debita distanza, con le guance lievemente arrossate per qualche sorso in più di quello che viene considerato il “Re dei vini” e anche “il vino dei Re”: il Barolo Docg di Duchessa Lia, la nobile espressione di uno tra i più ricchi, culturalmente, scenograficamente e culinariamente parlando, luoghi d’Italia: le Langhe.
Il barolo è ciò che mi sento di definire come il nobile orgoglio italiano figlio di un saper-fare devoto di generazioni di uomini che si riconoscono in quello che hanno e che si manifestano in ciò che creano: uno stile che va a braccetto con il savoir-faire francese e nei confronti del quale non teme confronti di merito.
Grazie alla sua struttura complessa, potente, equilibrata ma al tempo stesso elegante, questo vino, prodotto da uve nebbiolo in purezza, si abbina alla perfezione a secondi piatti di grande levatura sia del luogo sia d’oltralpe, luoghi non molto lontani e forse, anche per questo, così simili nel saper esprimere in modo chiaro e diretto il concetto di sostanza.
Il barolo di Duchessa Lia è un vino che non si dimentica e che testimonia, in ogni sua lieve sfumatura olfattiva e gustativa, quella grande personalità così marcatamente figlia della terra in cui viene prodotto, in cui si alternano con scenografica armonia poggi costellati di viti, castelli e piccoli borghi curati; una zona culturalmente devota al cibo e al vino in quanto elementi costitutivi della cultura e della tradizione.
Ecco, se dovessi rendere il mio pensiero con parole più semplici, definirei le Langhe come un mondo in cui il valore delle tradizioni non è mai passato ad essere moda o status, ma un modo di intendere la modernità come custode dei tratti veri e autentici del passato.
A quel vitigno a bacca nera che ha il merito di saper esprimere il meglio di sé nelle lunghe distanze, collego molti ricordi di famiglia. Ogni inverno, un caro zio che ci ha lasciato qualche anno fa, si presentava a pranzo portandocene in dono una bottiglia. Era un ingegnere dal pensiero profondo, i modi garbati e le parole pesate, un benefattore dai gusti solo in apparenza semplici. Tutte le volte, dopo essersi portato la forchetta alla bocca, rivolgendosi alla mia mamma, diceva: “Luisa, che bontà, non ho mai mangiato un piatto così: ed è proprio perfetto con il barolo”. A quella data bevevo acqua ma ora, ogni volta che sorseggio questo vino, penso a lui e alla sua espressione estasiata nel percepirne profumi floreali e fruttati, così come le sue note speziate.
Solo a fine giornata, dopo aver raccolto il compiaciuto stupore parentale e mescolato sulla tavola i colori delle migliori memorie di festa, mi sono sentita pronta a farmi portavoce di questo memorabile pasticcio d’anatra, non prima però d’essermi presa il tempo per – anche qui mi sia concesso – quel briciolo di intima follia che come un cane da tartufo in questo periodo vado cercando.
Nel libro di cucina da cui questa ricetta è tratta “Best of Paul Bocuse”, ho scovato un piccolo trafiletto che contiene il ritratto Gourmand del grande chef francese: una serie di domande che gli sono state poste per definire la personalità dello chef.
La prima cosa folle che mi è venuta in mente è stata mettere nero su bianco le mie risposte, senza leggere le sue.
Ecco quindi l’intervista doppia a me e Monsieur Bocuse.
Se potete, rideteci su. In fondo, non ci resta che questo.
Ritratti gourmand
- Quale prodotto e quale utensile le sono indispensabili per cucinare?
Chef Bocuse: il burro e la cocotte in ghisa
Moi: la gioia d’animo e la planetaria. - La sua bevanda preferita?
Chef Bocuse: l’aperitivo che amava il mio maestro Fernand Point: il Picon-Curaçao
Moi: Il caffè fatto a modo mio. - Il libro di cucina indispensabile?
Chef Bocuse: La Guide Culinaire di Auguste Escoffier
Moi: Tutti, perché se riesco a fare quello che faccio è solo grazie a quello che leggo. - Il suo peccato veniale?
Chef Bocuse: Tutti i dessert
Moi: Il carrello dei dolci: che sia veniale, inizio a dubitarne. - Se non fosse diventato cuoco, cosa le sarebbe piaciuto fare?
Chef Bocuse: Il guardiacaccia, oppure il bracconiere!
Moi: non diceva a me, giusto? - Colleziona qualcosa?
Chef Bocuse: Gli organi meccanici
Moi: Il collezionismo mi ha sempre evocato animi da serial killer… tuttavia credo di voler collezionare stampi per Bundt Cake. Ma cosa sono gli organi meccanici? - Il suo motto?
Chef Bocuse: “Per avere successo è necessario avere spirito d’iniziativa e perseveranza”, una frase di G. Cesbron.
Moi: “Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che credono in quello che vedono.” G. Galilei.
IL PASTICCIO D’ANATRA
di Paul Bocuse
NOTE PER IL GUSCIO DEL PASTICCIO
Per il guscio del pasticcio si può usare la pasta sfoglia pronta (ne serviranno due dischi), oppure quella fatta in casa.
Io opto per una via di mezzo: una sorta di impasto a metà via tra la brisée e la sfoglia che uso per fare l’apple pie. Se vuoi provarla, trovi la ricetta completa QUI.
Le basi vanno stese sottilmente in un diametro di circa 28 cm cadauna.
NOTE PER LA SCELTA DELLA CARNE
Monsieur Bocuse suggerisce di ordinare l’anatra al macellaio spiegando bene cosa ti servirà: 150 g di petto d’anatra passato al tritacarne (macinatura con griglia piccola) e due cosce spellate e disossate, sempre passate al tritacarne.
Io non amo usare il foie gras, ho tuttavia scelto di riportare la ricetta esattamente come da testo, suggerendo di rimpiazzare il foie gras con altra carne. In alternativa è possibile ometterlo.
Lo stesso vale per i fegatini di pollo: se non ne ami particolarmente il gusto, puoi ridurre la quantità e usare più carne di pollo.
INGREDIENTI E PROCEDIMENTO
PER IL GUSCIO
Due rotoli di pasta sfoglia – vedi note.
PER IL RIPIENO
petto (circa 150g) e cosce di un’anatra senza pelle (passati al tritacarne)
100 g guancia di maiale (passati al tritacarne)
100 g petto di pollo
100 g lardo
3 fegatini di pollo (vedi note)
2 fette di pan carrè (senza crosta)
4 cucchiai di panna liquida
1 cucchiaio di cognac
1 uovo e 2 tuorli
10 g pistacchi non salati
6 g farina
8 fette foie gras cotto da 50 g l’una (sostituibile – vedi note)
2 scalogni
sale & pepe
Prepara la farcia (puoi farla anche il giorno precedente)
Riunisci petto e cosce d’anatra passati al tritacarne in una grande terrina.
Aggiungi le altre carni tagliate a dadini non troppo grossi. Mescola bene e tieni da parte.
Metti il pane ad ammollare nella panna dopo averlo tagliato a dadini.
Versa il cognac, l’uovo ed un solo tuorlo, i pistacchi e il pane ammollato nelle carni. Mescola molto bene con le mani (io uso i guanti).
Pesa il tutto, poi regola di sale e pepe aggiungendo 17 g di sale e 1 g di pepe per ogni chilo di preparato.
Lo so, sembra tanto, ma è così.
Aggiungi la farina, taglia il foie gras a dadini (se lo usi) e aggiungilo alla farcia.
Lascia riposare il tutto in frigorifero coperto da pellicola per un’ora.
Trita lo scalogno e aggiungilo alle carni.
Mescola bene.
Preriscalda il forno
Porta il forno 180°C.
Stendi i dischi di sfoglia
Disponi un disco di pasta sfoglia (o stendilo) su un foglio di carta forno.
Disponi la farcia sul disco
Appoggia un anello da semifreddi diametro 18 cm nel mezzo della sfoglia e versarci all’interno tutta la farcia. Livella bene la superficie in modo tale che non ci siano buchi o avvallamenti.
Rimuovi l’anello con delicatezza, quindi spennella il bordo di sfoglia intorno alla farcia con l’altro tuorlo allungato con un goccio d’acqua.
Chiudi il pasticcio
Appoggia il secondo disco di pasta sfoglia, facendolo aderire bene al ripieno, sopra e intorno ai bordi.
Passa il dito lungo il bordo esterno per sigillare bene i bordi. Con un coltello o un taglia pizza, ritaglia l’eccesso di pasta tenendoti ad 1 cm circa dal ripieno.
A piacere passa i rebbi della forchetta lungo il bordo per sigillare al meglio i due dischi di pasta.
Spennella tutta la superficie con quello che resta del tuorlo allungato con acqua, poi pratica un foro nel mezzo aiutandoti con un levatorsoli o la punta di un pelapatate: avrai creato il camino utile a far uscire il vapore durante la cottura.
Appoggia una pallina di impasto sul foro (non preoccuparti, il vapore uscirà ugualmente).
Decora il pasticcio e inforna
Intaglia delle foglie o altri elementi decorativi dai ritagli di pasta avanzata e disponile sulla superficie. Spennellale con l’uovo.
Appoggia il pasticcio su una teglia e inforna subito nella parte medio bassa del forno per circa 50 minuti.
Come servire il pasticcio d’anatra di Paul Bocuse
Si può servire caldo, tiepido, o freddo come una classica terrina.
Il suggerimento del libro è di accompagnarlo con una salsa al vino rosso e foie gras.
In alternativa è possibile servirlo a fette sottili tipo antipasto con cetriolini sott’aceto, come ho imparato a Parigi dal bravissimo Stephan Jego.
Nessun commento