Dicono che i social media siano il non luogo della socializzazione, il refugium peccatorum di coloro che temono le relazioni sociali, la strada più semplice per sottrarsi al reale e avvolgersi nel proprio bozzo crogiolandosi nel mondo della finzione.
Si sostiene che tra le pagine virtuali, fatte per lo più di immagini e citazioni, le persone riescano ad anestetizzare i propri dolori, sedotte da proiezioni di futuribili se stessi, dimenticando che, per restare ben in sella alla vita, è importante essere presenti e coscienti di se stessi, nel corpo e nello spirito, nel qui ed ora.
Ricordo a tal proposito le parole con cui, una decina d’anni fa, una coach aziendale introdusse me e i colleghi d’azienda dell’epoca alle porte di un viaggio alla scoperta delle relazioni umane, dell’interconnessione e della consapevolezza di ciò che siamo e che dovremmo essere gli uni per gli altri.
Ci chiese quanti di noi, nel fare quotidianamente la stessa strada per andare al lavoro, facessero caso a quello che scorreva fuori dal finestrino. Ci domandò quanto ci sentissimo disponibili e interessati a comprendere il qui ed ora, a prestare attenzione a ciò che ci sfiorava ogni giorno, a vivere interconnessi come elementi di uno stesso gruppo, ad ascoltare e ad osservare gli altri senza lasciarci condizionare dal pregiudizio.
Le sue considerazioni risuonarono leggere e brillanti nella stanza come una rivoluzionaria provocazione, illuminarono gli occhi dei pochi presenti intimamente disponibili a soppesarne il valore, e infine ricaddero a terra come pioggia leggera su un terreno prevalentemente arido e, per logora consuetudine, poco incline a produrre buoni raccolti.
Sebbene negli anni a seguire non ci fu alcuna svolta virtuosa nella vita quotidiana del gruppo di lavoro, quelle riflessioni rimasero appuntate nel mio personale taccuino delle buone abitudini da mettere in pratica per diventare una persona più consapevole ed onesta, prima di tutto con me stessa.
Un campo di prova in cui cominciai ad esercitare queste virtù furono proprio i social media, esattamente quello spazio che gli esperti definiscono il campo della finzione, della facile seduzione, delle emozioni da poco.
Forse.
Io ho creduto nella scommessa che si potesse essere percepiti nella propria autenticità seppur filtrati da uno schermo, convinta che chi viene attratto è inevitabilmente simile a noi, qualcuno che condivide il nostro modo di esprimerci e di intendere la vita.
In definitiva, più che il palcoscenico della vanità, posso dire di aver sempre inteso i social media come una terra sconfinata in cui poter coltivare la meraviglia, nonché una democratica opportunità per esprimere se stessi. Una dimensione in cui si può dare e in cui è concesso, infinitamente, ricevere: è il cosa mettiamo in campo e il cosa assorbiamo che fanno la differenza.
Le parole possono accendere pensieri e le immagini essere fonte di ispirazione: usando la mente in modo attivo trasformi il tempo sui social da un viaggio nello smarrimento più totale ad una bellissima avventura di relazioni e crescita personale. Il riconoscersi, poi, nei valori come spiriti gemelli e affini, oltre ad uno schermo, penso sia la manifestazione più degna di questa capacità.
Ne ho le prove perché con diverse persone, tra cui Daniela, per me è andata proprio così.
“Mamma che brava che sei” è stata forse la prima cosa che mi ha scritto un certo numero di mesi fa che a pensarci bene sembrano anni, e da quel primo messaggio su Instagram la nostra conoscenza si è cementata su piccoli ed occasionali spazi di condivisione che hanno avuto per oggetto pensieri, timori, ricette, auguri, sogni e passioni.
Io e Daniela abbiamo molto in comune, ma soprattutto condividiamo la felicità che deriva dall’aver realizzato un sogno in età adulta.
E così, mentre io racconto e fotografo luoghi, persone e ricette, lei pratica la nobile arte dell’ospitalità, aprendo le porte di casa sua a persone da tutto il mondo che spesso la raggiungono dopo aver percorso centinaia di chilometri in sella ad una bicicletta.
Quando sparisco dai social media mi chiede solo se va tutto bene, quando torno mi dice che la giornata le sorride.
I suoi sono messaggi sempre gentili, premurosi, di delicatezza materna e le sue domande non sono mai fuori luogo o permeate di morbosa curiosità.
Esattamente quello che ho scoperto poi essere lei nella realtà.
“Sto mangiando la mostarda, Lucia, noi qui la facciamo spesso. Ti piace?” mi chiede un giorno della passata primavera.
Le rispondo che, potendo, mangerei mostarda tutto l’anno, non solo a Natale.
“In autunno ti aspetto A casa mia, allora. Vieni qui e resti quanto vuoi, così la facciamo assieme. D’estate no perché è caldo.”
Rido perché è sintetica ma sempre molto chiara e soprattutto detesta il caldo, incredibilmente più di me.
Poi Ottobre finalmente arriva e io carico la macchina con qualche presente prima di geo-localizzare sul navigatore Bagnolo San Vito, uno di quei punti strategici – mi raccontavo – in cui scegli di pernottare se ami il cicloturismo, se vuoi battere a tappeto il Mantova Outlet Village, se hai in programma un raduno politico sulle rive del Po… o vuoi imparare a fare la mostarda.
Delle quattro, scelgo l’ultima in un batter di ciglia.
A Casa mia Bed&breakfast è chiuso agli ospiti per la mia venuta e io mi sento quasi il Bambin Gesù.
Daniela mi accoglie con sorrisi e braccia aperte che si accontentano di cingere un vuoto incolmabile, dato il momento delicato che stiamo vivendo e fa sedere alla sua tavola. Tra una chiacchiera e un aperitivo a base di grèppole e lambrusco mantovano, l’ora delle portate principali arriva senza che ce ne rendiamo conto.
“Vuoi agnolini in brodo, tortelli di zucca e amaretto o risotto col puntèl? “
Io vorrei il tris, Daniela, ma mamma mi ha insegnato che a casa d’altri bisogna dare poco da fare.
“Fai tu, andrà benissimo”.
Ai golosi e raffinati agnolini in brodo, il cui “pieno” è realizzato con deliziosi tagli di carne, nessuno di noi tre aggiunge quel po’ di vino rosso che la tradizione locale chiama bevr’in vin, ma ci diverte ricordarne le antiche origini sfogliando vecchi libri di cucina locale fino al momento più atteso della serata: i tortelli di zucca e amaretto e il piatto di formaggi e carne lessa accompagnati da mostarde e confetture di casa.
Gorgonzola, caciotta al tartufo, formaggio di capra e cucchiaiate di pere, mele e ciliegie lucide e dal sentore senapato, ben equilibrato, dosato in quantità corretta per esaltare, ma non coprire, il frutto.
“È un gusto vederti mangiare, Lucia, dai tanta soddisfazione!”.
Da trent’anni non me lo diceva più nessuno, Dani, e a questo punto mi pento di non aver risposto “Il tris”.
La ciotola d’insalata che mi ha preparato, per quel tocco di sanità di stomaco, resta sola a bordo tavola, intonsa.
Prima di andare a letto mi mette tra le mani una brocca d’acqua aromatizzata alla menta e limone e fissandone le forme sinuose sul comodino mi addormento con l’abat-jour accesa, beata e leggera nei pensieri, come spesso accadeva da ragazzina.
La mattina seguente scopro che gli impegni di lavoro mi obbligano a cambiare i piani, costringendomi a restare una sola giornata – cosa che mi impedisce di attuare il programma a lungo pianificato – ma non ho neppure il tempo di rammaricarmene: scendendo le scale che mi conducono in cucina vengo accolta da una musica tanto dolce quanto la colazione che era stata apparecchiata solo per me.
Piccole sbrisolone, tortellini dolci, una crostata alle pere e cannella, brioche, pane, burro e confetture, frutta fresca e bevande calde.
Sembrano preparativi degni del ritorno del figliuol prodigo e non mi sorprenderei se per la sera Daniela avesse in previsione di sacrificare il vitello grasso.
Spero solo di conservare il giusto appetito.
Lei mi accoglie con un’energia fuori dal comune: le piace stare con le persone, darsi da fare affinché stiano bene, rendere la loro permanenza in quella che definisce “la mia semplice casetta” familiare quanto lo sarebbe lo spazio di casa propria.
“A casa mia Bed&breakfast” non suona solo bene: suona vero.
Con la luce del primo mattino riesco ad apprezzarne gli spazi esterni, raccolti, ordinati e dai colori vivi: il tappeto erboso fitto e perfettamente curato, le aiuole, i limone e la bella, grande ed elegante, pergola in legno che Graziano ha costruito da solo, nei ritagli di tempo.
Tantissimi pezzetti di quella casa sono il risultato di un grande dono, la sua manualità: la bicicletta da corsa azzurra appoggiata al muro che racconta la passione per le due ruote, il muro di mattoni (detta gelosia) che delimita la veranda, la cucina, il caminetto che ha costruito e demolito diverse volte finché il risultato non si è rivelato all’altezza delle sue aspettative.
Pensando a tutte le rogne che nel tempo ho accumulato in casa avvalendomi di artigiani poco meticolosi, gli chiedo come mai non lo fa di professione. Mi risponde che non ha “i titoli” per farlo, che quello che realizzanon è “perfetto” e che teme di deludere le aspettative altrui.
Strabuzzare gli occhi è tutto quello che mi resta di fronte a tanta, vera, umiltà, prima di incrociare lo sguardo rassegnato di Daniela, sua sostenitrice da sempre nella prospettiva di affrancamento da un faticoso lavoro da turnista.
La giornata che Daniela disegna a compensazione di un corso di mostarde sfumato nel nulla ha tutto il fascino di un abito cucito su misura.
“Mamma-mamma, Lucia, vedrai in che paradiso vive la Carla. Sono i posti che piacciono a te… .”.
Giusto, ma a chi non piacerebbero?
La signora Carla, che vive a pochi minuti da lì, è la sua seconda mamma: una ex maestra dagli occhi dolci e spesso lucidi che mi ricordano quelli di mia nonna Carmela.
Si stringe nel suo golf di lana blu mentre ci accompagna a fare due passi nel parco della tenuta che brilla di una luce fiabesca. La sua abitazione è ricoperta di edera rampicante ed è circondata da tante varietà di piante, fiori e bacche e lepri: elementi perfetti per ospitare una favola dei Fratelli Grimm.
Beviamo un caffè, che mi serve in un pregiata tazzina che ha più di 110 anni, in sua compagnia.
“Torna presto anche con Gabriele” è il suo saluto. Lasciamo Bagnolo per raggiungere quello che Daniela mi aveva illustrato come “un fruttivendolo della zona molto carino“, Corte Bosco Lupe a Santa Lucia di Quistello: tradotto con parole meno modeste, un autentico paese dei balocchi per gli amanti dell’autunno.
Un mercato all’aperto in cui, in luogo del carrello, si viene serviti con una carriola. Le tante varietà sono stipate in casse enormi, una sull’altra ma con tanto stile, e conservate all’aria aperta, perché dev’essere lasciato loro il giusto tempo per maturare.
“Ma se ne volessi una da usare subito quale dovrei comprare?”
“Ah ,ma allora prendi La Delica”, mi dice la ragazza dal capello rosso e il piglio deciso che mi serve. “Ha la buccia sottile e viene pronta prima: puoi mangiarla senza toglierla, eh?”.
Ne afferro quattro e non mi curo neppure di guardare il prezzo, distratta subito da un’altra grande zucca con la buccia nodosa.
“Mi passi anche quella?” le chiedo senza sapere per quali piatti è indicata. Scelgo di rimandare ogni dubbio ad un successivo momento di lucidità: ora capisco cosa provano coloro che fremono davanti alle ceste nel giorno del black friday.
E comunque, se non sarà buona per cucinare, poco male, farà bella mostra di sé sul bancone della cucina.
“Ma per i tortelli?”
“La migliore è la cappello del prete! Ma devi aspettare eh? lasciala fuori in giardino per un bel po’. Ha la buccia grossa e quindi viene pronta più tardi. Sappi che si conserva bene fino a Marzo.“
“Fantastico, ne vorrei di varie misure, insieme a 4 kg di pere, due kg di riso, dei peperoni tondi e delle pannocchie!”
“Ma guarda che le pannocchie sono solo per bellezza, eh?”
E dici poco?
In punta di carriola riesco a piazzare infine una grande zucca arancione, per dare un senso a quella festa a sfondo bloody-dark di fine Ottobre che non mi piace per nulla, e una dozzina di zucchette ornamentali che immagino avranno il loro bel dire appoggiate sul nuovo sfondo fotografico blu intenso.
Oh Cenerentola, tanto affanno per una carrozza… non sai che ti sei persa.
Graziano ci attende con il sorriso e ci aiuta a svuotare l’auto per poi invitarci nuovamente a salire. Desidera condurmi per le verdi zone in cui nacque Virgilio, tra cespugli verdi, e abitazioni in stile liberty fino in riva al Mincio.
Mi racconta che proprio lì è stata rinvenuta quella famosa pietra, meglio nota come il ‘sasso di Virgilio’, su cui il sommo poeta era solito riposare durante le sue passeggiate. Dall’argine raggiungiamo a piedi la Riserva Naturale della Vallazza, oltre la quale il Mincio prosegue per raggiungere il Po. Tra alti faggi e barchette attraccate al piccolo porticciolo, scorgo nutriti gruppi di bellissimi cigni.
Io non smetto di scattare, mentre Daniela raccoglie bacche cariche di meline e rami di luppolo al posto mio, e non serve neppure che glielo chieda: l’andar per campi con occhi sgranati e cesti al braccio è un’altra cosa che ci accomuna.
Un ultimo passaggio sulle rive dell’altro fiume che cinge il Parco del Mincio, il maestoso Po, prima di tornare a casa.
Sono ormai le due del pomeriggio ed il cielo brilla di una luce grigio perla.
Ci incamminiamo lungo l’argine sassoso che lo costeggia e raggiungiamo le casette dove i locali si ritrovano per chiacchierare e cucinare insieme durante le giornate estive, all’ombra della rigogliosa vegetazione che l’acqua del Po generosamente nutre.
Scorgerne il denso flusso tra i rami è qualcosa di profondamente energico e vivo e non è difficile capire perché qualcuno si sia preso la briga di installare lì delle piccole sedie in cemento lavorato.
Quando rincasiamo si sono fatte le 16 e il desiderio di mettere qualcosa di corposo sotto i denti si fa urgente.
Daniela estrae dal cassetto il suo quaderno di ricette mentre io, decisa a non mollare la macchina fotografica, mi affretto a recuperare la bottiglia che avevo portato con me.
Ci versiamo un calice di vino rosso e piazzo sulla tavola un mazzo di settembrini che ha raccolto nel giardino della sua seconda mamma. E mentre io continuo ad accumulare scatti su scatti, lei grattugia, impasta, arrotola, spadella e intanto racconta: di lei, della sua famiglia che la vita ha messo a dura prova e del suo sogno di trasferirsi fra qualche anno in Bretagna per poter essere più vicina a sua figlia Rachele.
Io l’ascolto senza perdermi un passaggio e talvolta scaccio qualche zanzara che è uscita per fare aperitivo insieme a noi, ignara del fatto che, io, ho sicuramente più fame di lei.
Scado nella retorica di affermare che mi sembra di conoscerla da una vita, eppure non è passato molto da quel giorno in cui mi ha mandato il suo primo saluto su Instagram.
Non ho il coraggio di dirglielo, ma so di non essere io a rendere le sue giornate così luminose quanto lei vuole farmi credere: è facile riconoscere in lei quella capacità innata di provare forti emozioni, che non dipende da un oggetto o una situazione particolare, ma nasce e si alimenta con “la disponibilità a lasciarsi trascinare dal vento della vita, senza perdersi, ma giocandoci insieme come potrebbe fare un abile velista.”
E ora, che a distanza di alcune settimane tengo tra le mani questo libro di ricette mantovane che lei e suo marito hanno acquistato in un mercatino locale più di 30 anni fa, tutto mi sembra più autentico e reale che mai.
Della ricetta dei capunsei mantovani che ho realizzato con Daniela, e del vino che ho stappato per accompagnarli, ti racconto QUI.
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