La solita truffa per intellettuali coi sandali. È questa la frase che sento spesso quando si parla di agricoltura biologica. Me la immagino pronunciata con sarcasmo e una risatina complice, come a dire: “Ah, davvero credi ancora a ‘ste cose?”. Perché è opinione ampiamente condivisa e perché c’è stato un tempo in cui l’ho pensato anche io. Perché il biologico, nel sentire comune, è diventato l’equivalente gastronomico delle campane tibetane: roba per fanatici che ascoltano suonare i cristalli e sborsano cifre blu per una carota.
Eppure, se c’è una cosa che mi ha insegnato in questo lungo tempo di training la cucina è che… non tutto è uguale. Una noce non è solo una noce, un pomodoro non è solo un pomodoro. E no, non sto parlando di sapore – che pure ha il suo peso – ma della storia che ogni cosa che ci infiliamo in bocca si porta dietro e che, sfortunatamente, incuriosisce ancora troppo poche persone.
La prima grande rivelazione al riguardo l’ho avuta quando “sono scesa in campo”, come direbbe il Cavaliere già passato a miglior vita. Nel campo di mio padre, nelle umide sere di estati calde, a raccogliere fagiolini e pomodori, mentre cercavo tutta la forza che avevo nel mio metro e qualcosa per infilare le mani tra le foglie delle piante evitando ragni e sorprese varie. Ero terrorizzata ma non avevo scelta: “Bambine, verso le sette venite nell’orto che mi aiutate a raccogliere i pomodori e i fagiolini”, esordiva al mattino con la sua voce grossa a me e Laura. Che strazio. L’idea di affrontare la giornata con quell’incombenza al tramonto mi strizzava l’entusiasmo vacanziero.
Però, tra uno sbuffo e un altro, ricordo nitidamente una cosa: il sapore dei pomodori caldi maturati al sole. Ne mangiavo un paio rincasando sulla mia biciclettina mentre sulle dita persistevano tracce di profumo di basilico che poco prima avevo messo nel cestino.
Con quei pomodori mamma ci faceva la salsa a crudo per la pasta, una cosa che tendenzialmente terrorizzava le persone a cui, fieramente, lo raccontavo.
“Ma come? Mangi la pasta col pomodoro non cotto?”
“Sì, mia mamma ci toglie la buccia e frulla tutto con olio, basilico, sale e aglio. Poi con quello ci condisce le penne calde…” rispondevo, quasi a scusarmi per il disagio arrecato con le mie ricette non convenzionali.
Perché mia madre, grazie a Dio, ha sempre avuto questa vocazione in cucina: dare sapore alle cose senza snaturarle, senza stravolgerne i connotati. A casa mia non c’era il canonico menù all’italiana. Non si mangiava primo e secondo in un solo pasto, la pasta al forno di domenica o gli gnocchi al giovedì… queste abitudini italiane non erano cadenzate, erano occasionali, saltuarie. Mia madre non perdeva ore in soffritti, tirava dritto davanti allo scaffale di merendine e creme spalmabili e non faceva i risotti col brodo, pratica che ora viene sbandierata dagli chef contemporanei ai quattro venti, ma che all’epoca faceva gridare allo scandalo.
Velocità e rispetto di ciò che aveva tra le mani… questo le veniva largamente riconosciuto da amici e parenti. E sulla tavola, ad ogni pasto, c’era sempre qualcosa per cui non smetterò mai di ringraziarla: una tonnellata di verdure preparate in tutti i modi.
Dicono che ciò che metti nel tuo stomaco quando sei bambino resterà per tutta la vita il tuo cibo rifugio, perchè è con quello che si sarà formato il tuo microbiota intestinale. Ecco, se oggi so riconoscere l’autenticità di un sapore, lo devo al modo in cui ha contribuito a sviluppare il mio gusto e nel tempo ho capito che se una alimento allo stato crudo non ha un sapore autentico e definito, allora non è stato coltivato bene. Se non è buono, non fa bene. Le api e gli uccelli aspettano il momento giusto prima di attaccare fichi e cachi e qualsiasi nutrimento… attendono il perfetto grado di maturazione. Perché solo in quel modo sanno che potranno trarre il massimo nutrimento e lo fanno senza che qualcuno glielo dica: è il richiamo della natura, è istinto, è sopravvivenza.
Da almeno 3 anni pratico il digiuno intermittente e durante il giorno mangio alimenti crudi, non processati, conservando le gioie del pasto cotto e più sostanzioso alla sera. Lo faccio perché mi fa stare bene e da tempo mi preserva da malattie di stagione: mi alleno a stomaco vuoto, sento l’energia salire e non scendere, ho maggiore concentrazione davanti al pc e durante gli shooting. È un equilibrio delicato che richiede cura e attenzioni questo stile di vita… esattamente come il nostro corpo, che trae nutrimento solo da materie prime vere.
Ho imparato a guardare le etichette, a scegliere le aziende, a capire che non tutta la verdura è uguale, non tutta la frutta è uguale. C’è quella che nasce in un terreno vivo, con lombrichi e microrganismi che lavorano sottotraccia, come quella di papà, e quella che cresce in contesti più intensivi. Bucce lucide, ma sotto la pelle spesso manca più di qualcosa.
L’agricoltura convenzionale non è “cattiva” di per sé: è un sistema che risponde a esigenze di mercato, di velocità e di produttività. Ha permesso di sfamare milioni di persone, ma talvolta lascia dietro di sé terreni stanchi.
E allora, qual è il valore del biologico? Quello di provare a rallentare. Non è perfetto – perché nulla lo è – ma segue un ritmo più vicino a quello della natura, rispettando il suolo, l’acqua e gli animali. Niente pesticidi di sintesi, niente OGM, niente scorciatoie chimiche. Al centro torna la fertilità del terreno, una questione che ci riguarda tutti, perché da lì, in fondo, arriva ogni boccone che mettiamo in tavola.
Spesso si dice che consumare biologico sia una moda, una trovata per chi può permettersi scelte più costose. Ma la verità è che la salute di un terreno riguarda tutti noi: un suolo esausto, povero e arido non è solo un problema dei contadini, ma un problema collettivo. Perché un campo senza vita, un fiume senza acqua pulita, un’aria sempre più pesante non sono questioni lontane: sono il futuro che stiamo seminando, ogni giorno.
È vero, il bio può sembrare più caro. Ma il prezzo reale di un sistema che consuma suolo e acqua come se fossero risorse inesauribili non lo paghiamo alla cassa del supermercato. Lo pagheremo domani, quando ci renderemo conto che certi equilibri naturali, una volta spezzati, non si ricompongono con uno scontrino.
E allora adesso, più leggera che mai per aver provato ad aprirmi pubblicamente su un tema a me molto caro, torno al mio Zelten dell’Alto Adige, quel dolce tradizionale che veniva preparato con tutto ciò che la terra donava in inverno: frutta secca, fichi, canditi e farina. Non c’era spreco, non c’era eccesso. Era un dolce povero (oggi non possiamo più considerarlo tale per via degli ingredienti che ha) e prezioso insieme, che raccontava la capacità di guardare al futuro con ciò che si aveva: la dispensa di una casa, la generosità di un terreno fertile, la sapienza di mani pazienti.
Lo Zelten dell’Alto Adige veniva preparato una volta l’anno, nel periodo natalizio, e portato in dono. Era un gesto di cura e di comunità, un modo per celebrare il raccolto che – nonostante l’inverno – continuava a dare frutti. E non è forse questa la vera eredità della terra? Avere cura di lei perché, anno dopo anno, continui a nutrirci?
Ecco perché l’ho preparato, quasi come ogni cosa che cucino, con ingredienti bio: non perché mi piaccia fare la radical chic del carrello, ma perché ci credo. Credo nel fatto che mangiare e scegliere meno, ma meglio, sia l’unico modo, anche egoisticamente parlando, per avere cura di sé e, poi, per chi verrà dopo di noi. Un lusso piccolo, alla fine, ma che profuma di qualcosa che ha molto senso.
Perché no, non tutto è uguale. Non un pomodoro, non una carota, non un dolce che ha resistito ai secoli. E non il mondo che ci lasciamo alle spalle.
LO ZELTEN DELL’ALTO ADIGE
INGREDIENTI
(da agricoltura biologica)
Per l’impasto di frutta secca
Scorza di 1 limone non trattato
Scorza di 1 arancia non trattata
160 g fichi secchi
160 g canditi misti
110 g uvetta passa
55 g datteri denocciolati
110 g grappa (io alla pera)
160 g noci sgusciate
55 g pinoli
55 g petali di mandorle
55 g nocciole
Per l’impasto base
160 g burro morbido
110 g zucchero semolato
Mezzo cucchiaino di vaniglia in polvere
2 uova grandi
160 g farina 00 Molino Merano
55 g farina di segale Molino Merano
11 g lievito per dolci
2 g sale
Per la decorazione
30 g miele d’acacia
mandorle intere pelate
Ciliegie candite
PROCEDIMENTO
Per preparare lo Zelten dell’Alto Adige, sciacqua e immergi l’uvetta in acqua tiepida per farla rinvenire, poi scolala, strizzala leggermente e trasferiscila in una ciotola dove avrai grattugiato le bucce degli agrumi.
Aggiungi i datteri e i fichi tagliati a pezzetti e i canditi.
Aggiungi le nocciole sminuzzate, i gherigli di noce tritati e le mandorle a lamelle. Versa la grappa e lascia macerare per qualche ora.
Lavora il burro con lo zucchero, la vaniglia e il sale fino a ottenere un composto bianco e spumoso, quindi incorpora le uova, una alla volta, montando bene. Setaccia le farine con il lievito e il sale, poi uniscile al composto. Mescola fino a ottenere un impasto omogeneo. Aggiungi la frutta macerata e mescola.
Versa l’impasto in uno stampo a cerniera da 23 cm imburrata e rivestita con carta forno, livella la superficie e decora con ciliegie, mandorle e canditi misti.
Cuoci in forno preriscaldato a 180°C per circa 35-40 minuti, fino a quando la superficie sarà bella dorata.
Sforna e lascia riposare. Nel frattempo, scalda il miele e spennella la superficie del dolce quando è ancora caldo.
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