Sul mio blog ci sono ricette che ho letteralmente corteggiato per lungo tempo. Cercate, analizzate, provate, riprovate, ristudiate e poi, a distanza di tempo, di nuovo da capo. Tante volte. Tra queste c’è lo strudel di mele, c’è l’apple pie; tra queste – invece – non c’era, non ancora, la tarte tatin. O meglio, c’era, ma in una versione semplificata, senza pasta sfoglia.
La Tarte Tatin fatta a regola d’arte (alla francese, naturalmente) appartiene a quelle celebrità dell’Olimpo su cui si cimentano in tanti e su cui – mi spiace dirlo ma quasi tutti – falliscono miseramente. Basta googlare “tarte tatin francese” su google.
C’è una cosa però, da riconoscere. La colpa è quasi esclusivamente delle ricette che si trovano. Oggi, più che mai, posso confermarlo.
Sul web spopolano tonnellate di indicazioni fallaci e le foto di copertina lo testimoniano: mele dall’aspetto ospedaliero, piatti colmi di liquidi trasparenti. Io rabbrividisco anche a scriverlo e anche nel ricordo di quelle innumerevoli volte in cui ho capovolto teglie in modo rassegnato per poi pensare « … e no, non è oggi che ce la facciamo».
Eppure in giro per il nostro paese esempi di divinità ben riprodotte ne avevo assaggiate nei miei vari pellegrinaggi culinari. La prima vera epifania è arrivata in montagna. Al Sant Hubertus, più di 10 anni fa, un giovanissimo Andrea Tortora (per il quale non sapevo avrei lavorato subito dopo essermi licenziata) serviva una Tatin, incantevolmente croccante, in una padella di ferro. Fettine di mele sottili e lucidissime rivestivano una sfoglia burrosa da affogare poi nel gelato.
Lì ho registrato la prima importante nozione: anche il materiale della padella è parte essenziale nello sviluppo della ricetta: il ferro distribuisce il calore in modo sostanzioso e deciso.
Ne ricordo poi successiva, questa volta a Milano, in un luogo assolutamente impensabile: Panino Giusto. Una vera anomalia, una di quelle sorprese che ti lasciano un bel punto di domanda piantato tra gli occhi. Le mele erano carnose e di un colore scuro e la consistenza perfettamente fondente. Non ho mai capito come ci fossero riusciti, ma quell’immagine mi è rimasta impressa come una nota visiva da rincorrere.
Per un bel pezzo di strada ho pensato quindi che il problema fossi io.
Cambiavo mele, stampi, forni, tempi e gradi di cottura; mentre aggiustavo un dettaglio ne rovinavo un altro, e alla fine sul piatto arrivava sempre la stessa mestizia: quella patina opaca e inerte da “mela di reparto”, che nessun intervento di post produzione può salvare. Continuavo a pensare mi mancasse qualcosa, di non aver scoperto ancora l’ingrediente segreto, quello magico, quello che nessuno mi aveva ancora svelato.
Mentre in Italia accadeva questo, in Francia, però, si verificava tutt’altro. La sua capitale – e non solo – continuava ad incantare il mio palato con una naturalezza quasi irritante. Le versioni davvero riuscite che avevo incontrato sulla mia strada avevano tutte qualcosa in comune, e questa cosa non era la fortuna: una pasta sfoglia, non brisée; delle mele con un colore vivo, non anemico; e un caramello dorato e quasi gelatinoso.
Dell’acqua manco l’idea.


Solo poco ho scovato, continuando nelle mie ricerche, che quel piccolo dettaglio che continuava a mancarmi era sotto ai miei occhi e, in qualche modo, aveva qualcosa da condividere con la stessa procedura dell’apple pie: non tanto la scelta delle mele – quello era un affair che avevo già smarcato – quanto la lavorazione delle stesse.
La risposta infatti stava in un minuscolo ma fondamentale dettaglio: per ottenere una tarte tatin perfetta il segreto è l’asciugatura naturale dei quarti di mela. L’ho capito imbattendomi nella ricetta ricetta di Simone Zanoni, chef del Georges V di Parigi.
Le sue mele — Pink Lady piccole e sode — vengono pelate, tagliate e lasciate asciugare in frigorifero per tre giorni, tutte ignude, senza alcuna protezione. Geniale. E non c’è ragione di curarsi se anneriscono: è naturale che accada ma tanto il caramello le scurirà anche di più.
È un gesto che ha qualcosa di ascetico: l’acqua evapora, gli zuccheri si concentrano, la polpa si compatta e si carica di un gusto più pieno. Il risultato è che, in cottura, la mela non rilascia più niente di superfluo, e la Tarte Tatin si cuoce in se stessa, senza necessitare di molto zucchero, in un ecosistema chiuso, perfetto.
Il caramello, poi, altra lezione. Lo zucchero si lascia sciogliere lentamente resistendo alla tentazione di rimestare e, quando diventa color ambra, si aggiunge il burro, freddo, a cubetti, poco per volta frustando bene. Questo Zanoni non lo confessa e qui ringrazio le nozioni sull’emulsione che ho appreso altrove (perché se non hai qualche base di pasticceria magari ti ritrovi con una sorta di sugo d’arrosto nella padella; scuro, con le chiazze d’olio e tutto scomposto). È il contrasto termico che crea l’emulsione, che lega il grasso e lo zucchero in un’unica, morbida colata di mou dorato.
E il burro? Un burro mediocre lo rovina, uno buono lo nobilita: Corman o President per chi è fortunato, oppure certi tedeschi di pura panna. L’importante è che risulti pulito e vero al naso, che abbia sentori di latte e vaniglia, non di formaggio, e un’alta percentuale di grassi. Se sa di formaggio, lasciatelo esattamente dove sta. Al supermercato.




E oggi, forte di queste nozioni, la mia Tatin ha trovato un suo equilibrio — e una bellissima forma estetica — grazie a una pentola-gioiello in ferro completamente made in Italy: la NeroSteel di FB Kitchenware.
È una padella in ferro nero nitridato: il metallo viene portato ad altissime temperature e “indurito” in superficie, così risulta praticamente inattaccabile da graffi, abrasioni e ossidazione; non è un vezzo tecnico, è una corazza sottile che lavora come uno scudo nel tempo. La cosa che mi ha convinta davvero, però, è un’altra: a differenza delle classiche padelle in ferro, non pretende la stagionatura rituale. Puoi iniziare a cuocere subito; il trattamento ha già preparato il terreno e, cottura dopo cottura, si costruirà comunque quella patina naturale che rende il ferro un materiale “vivo”, neutro nei sapori e geometrico nel calore. In pratica è il ferro per chi con il ferro non ha confidenza… ma vuole ugualmente il risultato dei professionisti.
Non ci sono rivestimenti chimici di cui preoccuparsi: l’antiaderenza nasce dall’uso, come succede con la ghisa ben tenuta.
Il fondo spesso trattiene la temperatura e la distribuisce in modo omogeneo (tradotto: niente punti bruciati e, soprattutto mele che cuociono allo stesso modo…), mentre il manico in acciaio inox dorato è sì scenografico ma anche pratico: permette di portare la padella in forno, sull’induzione, sul gas e persino barbecue, senza troppe cerimonie e senza deformazioni; l’unica accortezza vera è ricordarsi il guanto. 🙂
E poi la NeroSteel è bella, e anche tanto bella. Il che, per chi ama l’estetica in cucina, mica è cosa da poco.
E con i colori contrastati della Tatin in particolare modo: portarla in tavola fa restare i commensali a bocca aperta.
Il fondo scuro fa brillare le mele dorate; la sfoglia al burro, sovrapposta in tre strati e rincalzata con cura, sigilla il “tesoretto”.
Nessuna pozza pronta a raccogliere anche le tue lacrime.
La soddisfazione, per me, è sapere di averci messo la testa — e di averla trovata grazie a un italiano, a Parigi.




La ricetta della Tarte Tatin perfetta di Simone Zanoni
(Georges V – Paris)
INGREDIENTI
3 mele Pink Lady di piccola dimensione
60 g zucchero semolato
60 g burro freddo (anche demi-sel)
3 dischi di pasta sfoglia al burro da 16/17 cm di diametro
PROCEDIMENTO
Tre giorni prima:
Sbuccia le mele, tagliale in quarti e rimuovi il torsolo.
Disponile su un vassoio e lasciale asciugare in frigorifero per 3 giorni, senza coprirle.
Questo passaggio è fondamentale: l’acqua evapora, gli zuccheri si concentrano e la consistenza in cottura diventa perfetta.
Il giorno della preparazione:
Nella padella in ferro NeroSteel (diametro 20 cm), versa lo zucchero e prepara un caramello a secco, senza acqua. Versalo in una sola volta e lascia che lo zucchero si sciolga gradualmente a fuoco medio, inclinando la padella solo quando inizia a colorarsi. Non usare utensili per favorirne lo scioglimento.
Quando lo zucchero sarà disciolto, togli dal fuoco e aggiungi il burro freddo precedentemente tagliato a cubetti da 1 cm. Incorporalo poco alla volta, mescolando energicamente con una frusta gommata fino a ottenere una salsa liscia, lucida e omogenea.
Aggiungi il burro freddo e a cubetti evita schizzi e separazioni: il contrasto termico stabilizza il caramello e gli conferisce una texture vellutata. Alla fine sembrerà una sorta di mou.
Disponi i quarti di mela a raggera sopra il caramello caldo, coprendo completamente il fondo della casseruola.
Preriscalda il forno a 190 °C (ventilato).
Stendi la pasta sfoglia e ritaglia tre dischi da 16/17 cm di diametro. Sovrapponili uno sull’altro, spennellando con un velo d’acqua tra ciascun strato.
Poi, con il matterello, abbassa leggermente lo spessore fino a ottenere un disco unico del diametro uguale a quello della padella (20 cm)
Questo metodo conferisce alla sfoglia struttura e regolarità: in cottura gonfierà in modo uniforme e senza bolle eccessive.




Posiziona il disco sopra le mele e rincalza con cura i bordi verso l’interno della padella, così da sigillare perfettamente il tutto. Rincalzare bene la pasta sfoglia nel formare la Tarte Tatin è fondamentale: permette di trattenere i succhi e ottenere un caramello compatto e lucido al rovesciamento.
Con la punta di un coltello, pratica un piccolo foro al centro per far uscire il vapore.
Riporta la padella per pochi secondi sul fuoco: il caramello deve riprendere un leggero bollore ai bordi. Appena vedi le bolle di caramello comparire sui bordi trasferisci in forno e cuoci per 45 minuti, fino a doratura uniforme.


Sforna, lascia riposare 10 minuti, poi copri la casseruola con un piatto da portata e rovescia la Tatin con un movimento deciso ma controllato. Servi la Tarte Tatin tiepida con una quenelle di panna montata non zuccherata o una pallina di gelato alla vaniglia.







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